Voiski: “I muri tremavano, l’aria diveniva solida, il vuoto diventava compatto, tutto questo potere a portata di un solo dito.”

Voiski sarà ospite di Genau domani sera, sabato 15 settembre, in occasione della riapertura e inaugurazione della 5a stagione. Per farvi conoscere meglio il nostro ospite, ecco un’intervista di qualche ora fa comparsa sulla fanzine Heeboo.fr che abbiamo tradotto dal francese. Dalle prime esperienze come pubblico al suo primo Live, Voiski arriva a raccontare il cuore delle sue idee sonore. Non ci resta altro che scoprirlo, domani, negli spazi del Q35. Buona lettura!

Voiski, aka Luc Kheradmand di origine, parte di Kartei con Crysta Patterson, fa parte di quei produttori che negli ultimi dieci anni hanno spinto i paesaggi sonori, romantici e ferventi di un “tocco” molto “francese”. Da non confondere con la bambagia della generazione precedente. Eppure. Voiski, a conferma di una techno eccitante, introspettiva e colta, a immagine di quella di Legowelt o ancora di Delta Funktionen, può essere considerato la risposta evidente alle necessità di una generazione. Una techno sensibile e quasi borderline. Voiski è un viaggio in Cadillac verso una cittadina di mare dove le luci calde inondano i cuori e la brezza fresca sferza la gola senza preavviso.

Lo incontriamo, Voiski, questa sera di venerdì 14 settembre, in occasione del release party molto atteso del primo disco Vernacular Records, al  “Station-Gare” di Mines. Perchè? Chiaramente, non per pettinare le bambole. Ma per un set che ci aspettiamo essere cosmico, contemplativo e ardente. 

Quando devi presentarti a qualcuno che non conosci nel cuore della notte, qual è la prima cosa che dici?

“Hi, I’m Luc, nice to meet you”. [In inglese nel testo originale: “Ciao, sono Luc, piacere di conoscerti”].

Un traccia perfetta per presentarti?

Forse Ad Infinitum per lo sviluppo della sua melodia, l’ascensione perpetua e i suoi giochi di percussioni in tensione.

https://youtu.be/lfT0-SxwNDo

Perché VOISKI?

Significa “soldato” in bulgaro. Non sono bulgaro neanche a pagarmi e non ho alcuna affinità particolare per gli eserciti o quello che siano, ho scelto questo nome principalmente per la sua sonorità più che per il senso. E’ stato solo più tardi che ho compreso l’importanza dei nomi e dei titoli in generale. Soprattutto per la musica senza testo, come la techno. 

Come e perché scegliere un nome d’arte?

Lo pseudonimo e i titoli sono dei luoghi unici in cui si può iniettare il senso del discorso. Oggi trovare il nome perfetto per i miei dischi mi porta via giornate intere. A volte ci ho impiegato più tempo che alla composizione del pezzo stesso. Alcuni dei miei nomi d’arte li ho scelti solo dopo molte settimane di ricerca.

Da dove vieni? Ti ricordi della tua prima volta in un club, non come DJ ma come pubblico?

Sono cresciuto nel 20esimo di Parigi [n.d: Parigi è suddivisa in 20 “distretti” municipali, gli Arrondissement], poi a Ivry, dove tutt’ora vivo. La mia prima serata? Non è stata in un club ma in una sorta di grande rave di chiusura della technoparade del 1999 a Parigi, nei giardini di Reuilly. E’ stato surreale. Dei camion carichi di impianti gracchiavano chilowatt di bassi a ripetizione. E’ stato forte e potente, fisico ed intenso. 

La cosa che non dimenticherai mai di quella sera?

Il set di Carl Cox, era il periodo migliore, dove suonava della techno dura e rapida, con un filo di emozione e colore. Ho costruito molto del mio attorno a questo contrasto. Ancora oggi suono per la maggiore dischi di quel periodo e arricchisco le mie produzioni di questi ossimori. 

Una notte perfetta, secondo te, com’è?

Non ne ho mai passate e, in realtà, se mi è capitato non è finita con la notte.

A che cosa ti riferisci?

Aspirare alla perfezione, qualunque sia il domani, è molto complicato. Mi fa pensare a Bill Murray nel film “Ricomincio da capo” bloccato dentro al tempo fino a quando non realizza la sua giornata perfetta. Dei ricercatori hanno stimato che gli sarebbero voluti 34 anni prima che prendesse coscienza e che potesse donare un senso alla sua vita.

Quando hai cominciato a suonare esattamente?

Nel 2005, 2006 in bar squallidi o a dei festini nei campi che finivano male…

Ti ricordi del tuo primissimo DJ set?

Non mi ricordo veramente del mio primo DJ set, sicuramente risale alle feste del liceo… ma il mio primo live me lo ricordo bene, era il 2007 con il mio gruppo techno-pop Kartei, dentro uno squat di Zurigo. Avevano un impianto gigante e avevo l’impressione che lo spazio intero si comprimesse ogni volta che lanciavo un kick drum. I muri tremavano, l’aria diveniva solida, il vuoto diventava compatto, tutto questo potere a portata di un solo dito… è stato veramente bizzarro. Ho sperato a lungo di ritrovare quella sensazione ma non è mai più successo. Può essere stata, forse, l’ebbrezza della prima volta. Ma sul momento mi ha sconvolto…

Qual è la tua più recente, grande scoperta in materia musicale?

L’organo e i canti ecclesiastici. Il fervore della musica è intenso.

E’ cambiato il tuo modo di ascoltare la musica da quando la suoni?

Per la techno sì, sono più impaziente: ascolto i dischi techno seguendo la loro struttura tipo stereotipata quindi salto a un quarto della traccia, poi a metà, puoi tre quarti. Per altri generi musicali, no davvero.

Ti considereresti un festaiolo, a parte il suonare?

Piuttosto una volta. Ho la tendenza ad arrivare giusto in orario per il mio set perché cerco sempre di dormire un po’ prima, ma mi capita ancora di farmi coinvolgere dal resto della serata e che mi attardi più del previsto per gli incontri, l’ambiente. Ci sono certe sere, certi luoghi, che sembra sbagliato andarsene. La sera che ho conosciuto Dj Kosme abbiamo finito per ballare il trenino!

C’è una cosa, nel modo in cui le persone facevano festa prima, che ti manca o che ti piacerebbe ritrovare, una nostalgia particolare?

Non saprei, direi che c’è una pratica nel party techno un po’ diversa a causa della sua banalizzazione che ha portato ad una banalizzazione della droga a scapito della musica. Senza generalizzare, mi è capitato di suonare in serate dove la musica aveva l’aria di essere veramente secondaria. E’ un peccato. 

Pensi che si possa fare della politica con il proprio suono? E, al contrario, pensi che si possa fare un suono senza che sia mai politico?

Penso che si possa fare della politica con tutto. E’ come l’arte, se dite che quella è arte allora ce ne sarà un po’. Ci saranno sempre delle persone per cui tutto sarà politica e viceversa. Ma qualsiasi soggetto ha in esso una politica dormiente o meno.

Qual è una cosa super importante che è cambiata dentro di te dal tuo debutto ad oggi?

La mia tecnica del suono è evoluta molto, incontrando altri artisti, scambiando tipi di conoscenza. E’ molto arricchente. Ma allo stesso tempo ho l’impressione di aver perso l’innocenza del debuttante. E’ impossibile ritrovare la follia di quel tempo in cui hackeravo senza sapere bene quello che stavo facendo. 

Come li vedi uscire i ragazzi fra vent’anni?

Danzeranno sicuramente in un modo totalmente strano a tempo di una musica sovversiva che susciterà l’avversione e l’indignazione della nostra generazione (come l’incomprensione che ha suscitato la techno su quella dei nostri genitori); forse rilanceranno il ballo di coppia, con dei movimenti coreografici molto elaborati. E’ quello che spero per allora.

Ti vedremo sempre sulla scena secondo te o ti sarai ritirato? 

Come diceva Jeff Mills nell’ultima edizione di Borschch Magazine, arriverà un giorno in cui i giovani di vent’anni troveranno strano e imbarazzante, socialmente, essere il pubblico di DJ di settant’anni. 

 

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