Quando si guarda per la prima volta “Berlino – Sinfonia di una grande città”, capolavoro sperimentale del cinema tedesco di Walter Ruthmann, non è difficile immaginare una musica perfettamente sincronizzata alle sue immagini mute. Inquadrature frammentate, ritmiche, al posto di bassi e percussioni come elementi di una sinfonia visiva; come se la matrice dei pattern sequenziali che sono alla base della musica elettronica esistesse già in Germania in una fase visiva ed embrionale. Non a caso è un treno, mezzo di trasporto futuristico nel passato, che ci porta dentro Berlino con una sferragliante corsa cadenzata dall’attenzione agli elementi meno umani, più meccanici, già abitanti di una narrativa futuribile di industrie, macchine e “warehouses”. Lo stesso treno di Ruthmann ci porta dentro al presente, nell’adesso di Johannes Schaff, che cerca di raccontare nel documentario “Symphony of Now” la Berlino di novant’anni dopo.
E’ un solco narrativo conclamato, dunque, quello in cui “Symphony of Now” va ad inserirsi: I binari, oggi, scorrono in mezzo ad una natura che si è riappropriata dei suoi spazi, fuori dalla città, e se Ruthmann immortalò Berlino capitale di Weimer nel 1927, prima della seconda guerra mondiale, quella di Schaff si fonda sulle numerose lapidi commemorative dedicate alle vittime della Shoah. Così, nelle prime istanze del film, il presente persevera nella sua dialettica con il passato dichiarandosi inscindibile da esso. E dopo poco, si perde. Si perde il significato nelle numerose immagini di Berlino che si sveglia; i luoghi turistici tipici ripresi dall’alto o dal basso stagliati contro il cielo azzurro come fotogrammi di una cartolina; Berlino che si sveglia con le prime ritmiche stiracchianti della colonna sonora, stiracchianti ma presenti, eppure per qualche motivo quasi del tutto ignorate. Berlino catalogo di soli esseri umani, singoli o folle, significanti e non, dimenticati i luoghi, gli spazi e gli elementi inanimati che avrebbero potuto conferire un’elemento di eccezionalità e ritmo. Potrebbe essere Berlino, potrebbe essere qualsiasi altra grande città con una bizzarra, umana fauna. Diviso in cinque atti come lo era il film di Ruthmann, gli ultimi tre si concentrano soprattutto sulla vita notturna fino alle prime luci dell’alba: la preparazione, le attività lavorative e di intrattenimento, il sonno o gli ultimi strascichi di un party.
Schaff si avvicina, ma senza entrare, cronologicamente e programmaticamente nelle vite degli individui; a volte li segue fino in casa, sul posto di lavoro, in taxi. Un gioco mostrativo senza forma, senza attenzione compositiva, come se ci invitasse solo ad osservare quanti tipi di uomini esistono: i vecchi, i bambini, i farmacisti notturni, le drag queen, i ballerini, le donne delle pulizie, i transgender, gli attori, i ravers… Tutto e niente. A volte, per caso, quest’occhio imparziale cattura un’immagine sensibile alla composizione cinematografica, ma spontanea come un colpo di fortuna.
L’”eredità” della “Sinfonia” del ‘27 possiamo dire sia in un certo senso raccolta dalla colonna sonora, elettronica, composta da Frank Wiedemann con la collaborazione di varie figure centrali nel panorama attuale berlinese ed europeo: Modeselektor, Hans-Joachim Roedelius, Samon Kawamura, Alex.Do, Gudrun Gutt e Thomas Felhman. Tutti questi artisti, producer e DJ collaborano dando vita ad un flusso musicale che accompagna le immagini, trasformandosi, ripiegandosi, evolvendosi dai titoli di testa a quelli di coda, unico commento sonoro del film. I bpm salgono e le sonorità si fanno più intricate, sovrapposte, mano a mano che ci avviciniamo alla notte, fulcro del film e delle attività umane, e i pattern compositivi sperimentali che erano visivi nel film di Ruthmann, qui diventano sonori, cogliendo dalle influenze musicali di ogni artista. Suggestioni ambient, electro, deep, acid, industrial, le contaminazioni tra l’uno e l’altro sono l’unica vera forma di narrazione: forte, ma non statica; coerente, ma fluida. Una soundtrack che comincia lirica e senza tempo, sulle immagini del passato, e ci accompagna poi in luoghi più familiari, bui, acquattati nelle ombre dei club che popoliamo. Peccato che alla fine le immagini “non sembrino le sue” e la percezione di “Symphony of Now” rimanga non tanto quella di un dialogo sonoro tra Berlino fattasi immagine e il suo suono fattosi musica, ma quello di una “Wunderkammer”, gabinetto delle curiosità un po’ impolverato, ma sicuramente bizzarro da guardare.