A diciassette anni vestivo solo con jeans strappati e chiodi di pelle. La musica che ascoltavo era il mio dissenso contro il mondo; le t-shirt delle mie band preferite erano una dichiarazione di intenti. Quando mi presentai in classe un giorno indossandone una delle Runaways che mi ero fatta da sola con una bomboletta spray e troppe spille da balia, le espressioni confuse di chi tentava di cogliere il riferimento furono parecchie. La verità è che la maggior parte dei diciassettenni e degli adulti con i quali ero in contatto durante la mia adolescenza in provincia non sapeva affatto chi fossero le Runaways. La cosa mi sembrava alquanto strana perché se da un lato potevo perfettamente comprendere la divergenza di gusti musicali -non per questo, perdonandola, dall’alto della mia adolescenziale superbia-, dall’altro non riuscivo a capire come si potesse scordare il primo gruppo rock della storia composto da sole ragazze, minorenni. Non ricordo con precisione come e quando venni io per prima a conoscenza della loro esistenza, ma ricordo che quello che sentivo in radio e in televisione non era abbastanza, non mi soddisfava. Perciò, la prima volta che vidi una giovane Joan Jett in tuta attillata, con il fumo che si alzava letteralmente dal suo corpo per il caldo e il sudore, in Allstars slacciate -come le mie-, suonare la chitarra come un’estensione del proprio carisma, rimasi affascinata ed impressionata da quell’aura androgina, da quel modo di esprimere la propria sensualità come non avevo mai visto fare prima da parte di una donna nell’industria musicale: senza compromessi, senza filtri volti al compiacimento di terzi. Come un uomo. Come una vera rockstar.
“Bad Reputation” di Kevin Kerslake comincia con questa “rivoluzione sessuale” al centro della propria premessa e dunque comincia con le Runaways. Per nostra affinità, galeotto fu un club storico di Los Angeles in Sunset Boulevard, il Rodney Bingenheimer’s English Disco, dove tra ragazzini preadolescenti e lolite che ascoltavano glitter rock si muovevano anche figure bizzarre dell’industria musicale, tra cui Kim Fowley -manager delle Runaways tra le altre cose- che con Joan quindicenne incontra Cherie Currie. Il resto è storia. La parte più consistente del documentario è rivolta all’esplorazione di questa prima fase musicale ed artistica: attraverso interviste e filmati di repertorio, Kerslake ricostruisce cronologicamente i passi che hanno portato Joan Jett dall’essere chitarrista delle Runaways, a voce principale, al loro scioglimento e al successivo progetto con i Blackhearts fino ai giorni nostri e alla consacrazione alla Rock and Roll Hall of Fame nel 2015, con relative pause e insicurezze tra un progetto e l’altro e attività collaterali come la collaborazioni con giovani band tra cui i The Gits e le Bikini Kill o il tributo a Mia Zapata alla sua morte.
Sono molte le informazioni e gli spunti offerti da cui partire per una propria ricerca personale, storica e musicale, così come lo sono i nomi di prestigio intervistati, forse anche troppi: tra gli altri non citati vi sono Rodney Birgenheimer, Iggy Pop, Debby Harry, Chris Stein, Michael J. Fox, Kathleen Anna e tra i più “giovani” Billie Joe Armstrong, Miley Cyrus e Kristen Stewart, che interpretò Joan nel film biografico “The Runaways” di Floria Sigismondi. La volontà però è una sola: quella di riassumere in un rapido excursus la vita esclusivamente professionale di un’artista che con la propria persona ha influenzato il panorama dell’industria musicale e la logica delle labels quando era impensabile per le ragazze poter fare rock and roll. Un passo in più al semplice manifesto di intenti femminista, un modello di individualità. In un momento storico in cui il femminismo sembra stia vivendo una seconda primavera, per quanto importante essa sia, è necessario ricordare che prima del movimento, prima dei ruoli sociali di donna e uomo ci sono persone con attitudini, talenti e sogni ed è con questi ultimi che ci si identifica, piuttosto che con la militanza a tutti i costi.
Nel coro delle testimonianze e nel rapido scorrimento cronologico dei fatti e degli avvenimenti, cade il collante che unisce i segmenti del documentario alla vita privata di Joan, lasciando lo spettatore con più domande che risposte. La sensazione è quella di assister, attraverso un vetro trasparente, ad un copione frammentato, molto “americano” nel mezzo e nel messaggio che non ha mire esegetiche, ma volte alla costruzione e idolatria di un personaggio ben collaudato. Se il rock and roll, per dirlo con le parole di Joan, “is “I’m going to do what I want to you” kind of energy” mentre la “pop music is sort of about “you can do what you want to me” kind of energy”, qui la sensualità e la sessualità impenitenti che sono componenti del genere e del personaggio vengono quasi del tutto trascurate in una rivisitazione ancora più “family-friendly” e simpatica della rockstar. Non troppo velato, allora, un certo grado di coinvolgimento di Joan stessa nella realizzazione del prodotto finale, che è sempre stata così riservata e attenta negli anni -per non dire ambigua- riguardo alla propria vita privata. Delle droghe, che sicuramente ci sono state, non si fa menzione. Dei veri rapporti che intercorrevano tra le Runaways e che portarono al loro scioglimento si accenna appena, come già era accaduto nel film della Sigismondi del 2010. Dell’umano dietro all’artista, quasi nulla è pervenuto. Il risultato è un documentario che non investiga, mostra; non spiega, ma continua a costruire pedissequamente attorno ad un immaginario già perfettamente consolidato. Da fan, aspettavo di vedere qualcosa che già non sapessi, qualcosa che YouTube non avesse già proiettato dagli anni ’70/’80 alla vita di una teenager nel 2011. Che cosa resta di autentico? Forse i bisticci da vecchia coppia sposata con il suo produttore Kenny Laguna, da trent’anni l’uno al fianco dell’altra. Forse l’immagine di una donna che dice che, per quanto la musica sia stata il suo unico vero amore, la musica non è una persona.